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francescomarchetto, 09/08/2015 — Da qualche tempo sono divenuto sempre più consapevole che il nostro modello di "sviluppo" non è più sostenibile e che bisogna uscirne; già ma come? A destra ed a sinistra si sente sempre la solita tiritera che bisogna far ripartire l'occupazione per far ripartire i consumi, ma siamo proprio convinti che le cose debbano andare così? Il problema in effetti non è tanto la mancanza di lavoro, ma la mancanza di stipendio! Mi spiego meglio: se la ricchezza mondiale aumenta di anno in anno, se lo sfruttamento della Terra è sempre maggiore, com'è che siamo tutti più poveri? Semplice, perchè il nostro sistema porta all'accumulo fine a se stesso e quindi alla polarizzazione degli estremi. Siamo sempre più un cancro per il pianeta perchè solo un cancro cresce a ritmi sempre più veloci distruggendo la propria casa. Quello che noi dobbiamo avere il coraggio di fare è distinguere crescita da sviluppo e creare finalmente una società del ben-essere e non del ben-avere! Molti studi dimostrano che una società più povera ma con meno disuguaglianze è una società più sana e felice!
Non mi dilungo oltre, se qualcuno vuole approfondire l'argomento gli consiglio i libri di Serge Latouche. Noi praticamente possiamo cominciare ritagliandoci degli spazi fisici e mentali al di fuori del mondo consumistico, mettere in atto comportamenti etici ed ecologici, ma, soprattutto, liberarci dalla schiavitù mentale di pensare che l'unico modo di essere felici e di realizzarsi stia nel consumare sempre di più. La storia dimostra il contrario.
Buona decrescita a tutti.
L’eclatante menzogna della crescita come panacea di tutti i mali della società.
Con questo breve saggio intendo smentire con la forza della ragione quei millantatori che presentano la tesi del “creare più lavoro facendo crescere l’economia” come se fosse una panacea per tutti i mali della società.
La crescita del PIL, e il relativo aumento dei consumi, forse risolveranno temporaneamente la crisi occupazionale, ma di certo incrementeranno anche l’impatto ambientale e condanneranno gli esseri umani ad un lavoro totalizzante.
E tutto ciò dovrebbe accadere in un mondo con un ecosistema già fortemente compromesso, dove i lavoratori devono sacrificare 8 ore al giorno della propria unica esistenza per il lavoro, bene che vada, a prescindere dalla propria volontà.
Ma che senso ha far crescere l’economia se poi questa crescita non si traduce in un maggior tempo libero, in un minor inquinamento ambientale o in un qualche incremento di felicità per l’umanità?
Inseguiamo ciecamente la crescita economica, ma ci siamo mai fermati un istante a domandarci se questo processo sia sostenibile?
La risposta non può che essere sì, nel breve termine, e no, nel lungo termine. Viviamo in un mondo finito ed è fisicamente impossibile che la crescita dell’economia possa continuare in modo indefinito.
I principali indicatori ambientali, uno su tutti l’Ecological Footprint, ci dicono chiaramente che abbiamo superato di gran lunga i limiti che sanciscono la sostenibilità.
Assistiamo quotidianamente ai primi segnali di un collasso dell’ecosistema che però, al motto di “più crescita per tutti”, stiamo follemente ignorando.
Pensiamo di essere delle divinità onnipotenti che operano in uno spazio infinito, ma in realtà siamo simili a dei batteri insignificanti intrappolati in una capsula di Petri intenti a consumare il nutrimento di cui disponiamo più velocemente di quanto quest’ultimo riesca a rigenerarsi.
Potremmo continuare a fingere che non esistano limiti dovuti alla finitezza del pianeta sul quale viviamo, ma prima o poi pagheremo a caro prezzo le conseguenze delle nostre illusioni.
Che cosa dovrebbe fare un’economia sana che agisce in un mondo finito?
Inizialmente dovrebbe crescere, per poi tendere asintoticamente verso il limite imposto dalla finitezza del pianeta, esattamente quel limite che sancisce la sostenibilità.
A quel punto si potrebbe agire sull’efficienza, ad esempio concentrandosi sull’incremento della qualità e non della quantità.
Ma si dà il caso che noi abbiamo già superato tale limite, quindi un qualche tipo di decrescita economica è inevitabile.
Sta a noi scegliere se continuare a correre sempre più veloci per scontrarci contro un muro o rallentare per deviare dalla rotta di collisione, salvando l’umanità da un tremendo impatto.
Non tutte le strategie per decrescere sono uguali: si può decrescere in modo stupido provocando gravi ripercussioni sociali, o lo si può fare con intelligenza migliorando le condizioni di vita di tutti gli esseri viventi.
La decrescita infatti non è necessariamente una cosa negativa, come politici ed economisti al servizio del capitale intendono farci credere.
O meglio, non è un male per gli esseri umani in generale, ma lo è senza alcuna ombra di dubbio per tutti coloro che intendono realizzare profitti. Cerchiamo di capire perché.
Che cosa accadrebbe all’economia se non ci fossero più guerre, se gli oggetti durassero a lungo e gli esseri umani smettessero di fumare e non si ammalassero più di cancro?
Miliardi e miliardi di dollari di profitto svanirebbero, il PIL collasserebbe e di certo l’economia crollerebbe sotto il peso delle sue contraddizioni. Un’eclatante crisi occupazione causerebbe ancor più eclatanti problemi sociali.
Ma eliminare le guerre, diminuire le malattie e produrre oggetti durevoli, riducendo anche l’inquinamento ambientale, sarebbe un male o un bene per gli esseri umani?
Bisogna intenderci sui fini delle nostre azioni: vogliamo continuare a far crescere l’economia per salvarla dalle sue contraddizioni, o vogliamo salvare l’umanità dalle contraddizioni dell’odierna economia?
La drastica diminuzione del PIL lascerebbe gran parte delle persone disoccupate… vediamo quindi come si potrebbe risolvere la crisi occupazione senza alcuna necessità di far cresce l’economia.
Il lettore imbevuto dell’ideologia crescitista probabilmente resterà sconcertato scoprendo che esistono almeno tre soluzioni praticabili.
Numero uno: si può ridurre l’orario di lavoro, in modo tale che tutti tornino a lavorare, così come sostenuto in quel famoso motto che andava tanto di moda negli anni ’70.
Numero due: si può istituire un reddito d’esistenza, universale ed incondizionato, in modo tale che tutti abbiano la certezza di poter vivere in modo più che dignitoso, anche senza lavorare.
Numero tre: si possono togliere i mezzi di produzione dalle grinfie dei capitalisti, iniziando ad impiegarli per produrre beni e servizi necessari e di elevata qualità in modo quanto più possibile automatizzato, al fine di distribuirli a tutti, senza pretendere alcun prezzo, guardando alle vere esigenze dei membri della società e non al profitto.
Cerchiamo di analizzare brevemente pregi e difetti di queste soluzioni così “alternative” rispetto al pensiero dominante.
La proposta di ridurre l’orario è senz’altro attuabile ed ha il grande merito di diminuire il tempo dedicato al lavoro che oggi è paradossalmente totalizzante.
Perché dico “paradossalmente”? Perché ciò accade nell’epoca in cui la tecnologia può sostituire grandemente l’uomo nel lavoro, in modo decisamente efficiente e soprattutto automatizzato.
Se le automazioni ed i sistemi informatici possono lavorare al posto degli esseri umani, per quale assurdo motivo continuiamo a lavorare al posto loro?
Ad ogni essere umano dotato di un quoziente d’intelligenza di poco superiore a quello di uno scimpanzé, sembrerebbe ragionevole sfruttare questa grande opportunità… e invece no!
Solo per fare un esempio tra i più eclatanti: nei supermercati non ci sono casse automatiche ma commesse che sprecano la loro vita davanti a calcolatrici semi-automatiche.
In generale, c’è una forte inerzia che c’impedisce di sostituire i lavoratori umani con delle automazioni, perché altrimenti diminuirebbe l’occupazione.
Ma ancora più paradossale, è che il sistema riesca a convincere i lavoratori di dover essere addirittura grati per l’“opportunità” che gli viene concessa, vale a dire l’opportunità di essere schiavi di un lavoro inutile che non è più necessario, perché potrebbe essere svolto da qualche apparato tecnologico.
Simili dinamiche, a mio avviso, rappresentano una follia sociale e devono assolutamente essere eliminate.
Se una macchina è in grado di svolgere un lavoro al posto degli esseri umani, quella macchina deve svolgere quel lavoro.
È compito del sistema economico fare in modo che l’automatizzazione del lavoro rappresenti una dinamica auspicabile, e che quindi possa avvenire senza generare alcun problema sociale.
Diminuendo l’orario di lavoro, si potrebbe ripristinare la piena occupazione a prescindere dal quantitativo di lavoro sottratto all’umanità dalle automazioni; e così si potrebbero arginare le criticità dovute al fenomeno noto come “disoccupazione tecnologica”.
La diminuzione d’orario, però, implicherebbe anche una diminuzione dello stipendio, che, almeno in prima battuta, potrebbe essere facilmente eliminata integrando i salari.
Come? Redistribuendo la ricchezza esistente.
E non mi si venga a dire che “non si può fare”, perché in un mondo dove l’1% della popolazione ha accumulato una ricchezza complessiva pari a quella del restante 99% (fonte Oxfam 2016), redistribuire la ricchezza non solo è possibile ma è doveroso.
Possiamo ora prendere in considerazione la soluzione numero due.
Il reddito d’esistenza, universale ed incondizionato, ha il grande pregio di eliminare l’obbligo del lavoro, pur garantendo a tutti di vivere. Il che, a mio avviso, rappresenta un enorme progresso dal punto di vista sociale.
Tutti gli individui dovrebbero avere la certezza di poter vivere dignitosamente solo ed esclusivamente per il fatto di essere umani, ed il lavoro non dovrebbe essere una costrizione, come invece accade oggi per i più, ma una libera, matura e volontaria espressione dell’essere di ogni individuo.
Con il reddito d’esistenza entrambi gli obiettivi sarebbero immediatamente raggiunti.
Nel futuro le macchine prenderanno sempre di più il posto degli uomini nel mondo del lavoro e ad un certo punto si dovrà accettare l’idea di svincolare il reddito ricevuto dal lavoro effettuato.
Un simile passo, prima o poi, dovrà essere attuato, perché entro qualche decennio il costo delle automazioni scenderà notevolmente, e il lavoro umano potrebbe diminuire a tal punto da non essere più necessario (o quasi).
La concessione di un reddito d’esistenza consentirebbe di eliminare ogni sorta di criticità dovuta all’eccessiva povertà, come ad esempio fame, furti, impossibilità di accedere alle cure mediche e così via; inoltre, i processi produttivi potrebbero essere automatizzati, senza più alcun problema dovuto alla creazione di disoccupazione.
Si può davvero dare un reddito a tutti senza nessun obbligo di lavorare?
Certo che si può fare, o meglio, si sarebbe potuto fare agevolmente se i “lungimiranti” politici non avessero ceduto la sovranità monetaria a banche centrali private ed indipendenti (come nel caso della BCE).
Così come gestito oggi, il denaro è il più grande mezzo di dominio dell’umanità. Ma se il popolo riuscisse a impadronirsi della gestione della moneta, potrebbe compiere un primo grande passo verso la libertà, eliminando debiti immaginari e concedendo un reddito d’esistenza degno di questo nome a tutti gli esseri umani.
Il secondo e assai più importante passo da compiere consiste nel liberare il pensiero dalle logiche del profitto, ponendo al primo posto tra i nostri fini il raggiungimento del benessere di tutti gli esseri viventi.
A quel punto si potrebbe perfino pensare di pianificare l’economia avvalendoci di una rete di calcolatori ed eliminando l’uso del denaro. Arriviamo così alla terza soluzione.
Ci sono beni che non devono avere un prezzo come l’aria o l’acqua, ad esempio, e perché no, anche del buon cibo, un’istruzione elevata, trasporti, cure mediche, un’abitazione e qualche capo di vestiario di qualità.
Alla luce dell’odierna conoscenza scientifico-tecnologica, che cosa c’impedisce di fornire gratuitamente a tutti gli esseri umani un insieme essenziale di beni e servizi, se non una mera questione di volontà?
Di certo non mancano i mezzi e le risorse per farlo, è solo che il nostro agire non guarda a quel fine, così come non guarda all’efficienza, ma pensa solo al profitto.
Ormai siamo abituati all’idea che i mezzi di produzione debbano essere di proprietà privata, e che i loro possessori abbiano il diritto di impiegarli a proprio vantaggio, inseguendo il profitto e sfruttando in modo indiscriminato risorse e altri esseri umani.
Ma se ci fermassimo a riflettere, scopriremmo immediatamente che non c’è niente di più sbagliato di una simile organizzazione sociale.
In nome della proprietà privata e della competizione finalizzati al profitto personale, abbiamo costruito la più distopica delle società, nella quale non ci si preoccupa degli altri ma si pensa a come sottometterli per sfruttali; non si guarda alla sostenibilità ambientale ma a quanto utile in più si può ricavare consumando il petrolio piuttosto che l’energia derivante dalle fonti rinnovabili; la malattia non è un male da eliminare ma una condizione profittevole da ricercare… e così via di assurdità in assurdità.
Le risorse dovrebbero essere comuni, così come i mezzi necessari per trasformarle, ed il fine non dovrebbe essere il profitto ma l’interesse generale.
L’economia non dovrebbe basarsi sul libero mercato ma dovrebbe essere scientificamente pianificata al fine di soddisfare i veri bisogni di tutti gli esseri viventi, con la massima efficienza ed in modo sostenibile.
Non dovrebbero esistere fabbriche dei capitalisti e lavoratori che mendicano il lavoro per sopravvivere, ma fabbriche dell’umanità nelle quali lavorano dei robot che producono ciò che serve agli esseri umani per vivere in libertà.
Capisco che tutto ciò richieda un’evoluzione della coscienza che è ancora di là da venire, ma non per questo una simile soluzione si può escludere dal dominio delle umane possibilità.
Un eclatante punto di criticità risiede nell’attuale paradigma economico capitalistico che deve essere superato.
Ma se vogliamo seriamente risolvere le problematiche non possiamo soltanto limitarci a cambiare l’economia, dobbiamo elevare anche il nostro livello di pensiero, con una nuova concezione socio-economico-culturale.
La diminuzione d’orario a stipendio invariato e/o la concessione di un reddito d’esistenza, sono dei passi necessari per risolvere le odierne problematiche che devono assolutamente essere attuati.
Ma purtroppo funzioneranno solo nel breve termine; nel lungo termine infatti perderanno la loro efficacia, perché non intervengono alla radice dei problemi, eliminando le vere cause delle criticità.
Il loro limite consiste nel restituire ossigeno al sistema capitalistico, mantenendo in essere le sue logiche.
Ad esempio, l’idea di produrre per realizzare profitto resterebbe in essere, con tutte le distorsioni che ne derivano, come un iper-consumo inutile e dannoso.
L’umanità sarebbe un po’ più libera dal lavoro, ma ci sarebbe comunque sfruttamento da parte dell’uomo sull’uomo. E ci sarebbe ancora divario sociale, pur essendo attenuato in qualche misura.
Con la nuova disponibilità di reddito, e la spinta dovuta all’inseguimento del profitto, i consumi tornerebbero a crescere, e con essi l’impatto ambientale.
È chiaro quindi che come minimo si debba ripensare l’approccio alla produzione (e al consumo), svincolandolo dall’idea del profitto e orientandolo all’efficienza e all’utilità.
Ma il sistema capitalistico basato sulla moneta debito non può fare a meno di crescere, perché se non cresce è intrinsecamente condannato a fallire.
Quindi, se s’intende spezzare questo circolo vizioso basato sulla ricerca della crescita per la crescita, è altresì necessario ripensare i fondamenti dell’economia.
I problemi dell’odierna società non possono essere risolti continuando a preservare le logiche del sistema capitalistico, perché da esse sono generate.
Dobbiamo comprendere che il problema non consiste nel lavoro che non c’è, o in quello che mancherà a causa del crescente impiego della tecnologia, ma nella più totale incapacità dell’attuale sistema economico di impiegare le automazioni e i sistemi informatici basati sull’intelligenza artificiale a vantaggio di tutti.
Non si tratta di creare più lavoro in modo da ottenere la piena occupazione, ma di diminuire il lavoro umano delegandolo alle automazioni, per quanto possibile, facendo in modo che gli esseri umani possano comunque usufruire dei beni e dei servizi realizzati e forniti dal sistema.
Non è una questione di far crescere l’economia ma d’iniziare a guardare all’efficienza per assicurare la sostenibilità.
Non ci servono più beni di scarsa qualità per realizzare un maggior numero di vendite, ma meno beni di alta qualità costruiti per durare a lungo, in quantità tali per fare in modo che tutti possano disporne.
Non dobbiamo aumentare i profitti, ma la libertà, l’uguaglianza e la felicità.
Se daremo ancora una volta ascolto agli ideologi della crescita, alimenteremo le disgrazie dei molti per il vantaggio dei pochi.
Mediante un iper-lavoro ed un iper-consumo inutili condanneremo i lavoratori ad una vita da schiavi e comprometteremo ulteriormente l’ecosistema del pianeta sul quale viviamo. L’unica cosa che dovrebbe crescere non è l’economia, ma la nostra umanità.
Mirco Mariucci
utopiarazionale.blogspot.it